Prima di Pasqua, secondo tradizione, il Re lavò i piedi ad una decina di poveri, senza che nulla facesse presagire il peggio, mentre il 2 aprile 1860 i deputati di quattro dei sei stati dell'Italia si riunirono a Torino tranne le Due Sicilie e la Chiesa. Mancava un mese al primo tracollo, quando il 3 aprile, l'altro zio, il Conte di Siracusa Leopoldo Borbone, gli inviò una missiva che lo invitava a consolidare la politica estera adeguandosi ai tempi. Parole inascoltate, quelle del fratello del padre che preferiva essere salutato "colla bandiera allo stemma dei Savoia e non col borbonico professandosi suddito di S.M. Vittorio Emanuele II, solo Re degno di regnare sull'Italia". Così dirà all'Ammiraglio piemontese Pellion di Persano, nel ricevere, in cambio del suo tradimento, il titolo di Luogotenente della Toscana. L'ultimatum a Franceschiello avvenne ad aprile, mentre le spie piemontesi erano già in Sicilia a fomentare i liberali promettendo una anomala autonomia previa annessione al Regno sabaudo. Anche gli insurrezionali di Avellino e Benevento, nati fra i banchi del liceo, erano pronti. Ma divennero sempre più mazziniani che garibaldini, sentendosi chiamati alla giusta causa della rivolution, anticipando sul campo la discussione politica post-unitaria che darà vita ad una miriade di giornali locali. Questo libro spiega perché la questione dell'annessione al Piemonte fu un fatto di famiglia, un miserabile equivoco fra zio e nipote.