Il testo si propone di sottoporre a revisione storiografica il tema delle condizioni impossibili apposte alle disposizioni di ultima volontà secondo il diritto romano, inquadrandolo nell'ambito delle controversie tra le scholae giurisprudenziali del Principato. In particolare, assume rilievo la vicenda genealogica della cosiddetta "regula Sabiniana" (ossia del principio per cui l'atto mortis causa debba avere la medesima efficacia che se la condizione non vi fosse mai stata apposta): tutta la sua storia risulta caratterizzata da un'innegabile spinta espansiva che procede per mezzo di successive, ma non sempre equivalenti, pronunce di giuristi, fino a ottenere quella che appare una decisa affermazione già nel II secolo d.C. Le relazioni con l'attualità dei dissensi tra Sabiniani e Proculiani, la recezione presso i maestri di età severiana e le evoluzioni successive sino alla sanzione normativa da parte di Giustiniano costituiscono altrettante tappe di uno sviluppo non sempre lineare, che viene ripercorso a cavallo tra elaborazione privatistica e storia del pensiero giurisprudenziale.