Le parole sono pietra, posizione, esperienza, cercano nella loro incompiutezza di riprodurre il mondo per questo vanno maneggiate e custodite con cura. Esse non recano la scritta proprietà privata, non sono un nostro possesso, non dimorano nel chiuso del nostro campo protetto ma rimbalzano nel campo libero della vita. Si contaminano con altre parole, producono assemblaggi dell'essere che ogni volta inaugurano la vita. Permane sempre nelle parole che nominano le cose un'eccedenza oscura: è la voce del mondo che reclama il suo carattere magmatico, di cui nessuna voce umana è depositaria. Orgoglio è una di queste parole, ambigua, che sovente finisce per produrre disorientamento concettuale, quindi esistenziale. Infatti, l'orgoglio richiama l'amor proprio, da alcuni inteso come fierezza, legittima esibizione delle proprie qualità, da altri come eccessiva considerazione di sé, alterigia, un gonfiare il petto. Nella nostra prospettiva l'orgoglio si delinea come esperienza profondamente umana, nel segno della legittima testimonianza comunitaria della propria vocazione.