Vi è chi ha pensato che la psicoanalisi sia ispirata dalla filosofia. Ma le intenzioni strategiche di Freud scuotono dalle fondamenta i pilastri della cultura che la precede, e segnatamente della filosofia, costringendola a un confronto, e rimarcando una differenza: il contributo conoscitivo della psicoanalisi non è nel dire ma nel mostrare, nel suo corpo a corpo col paziente e l'inconscio. Al di là del rapporto fra psicoanalisi e filosofia, ci interroga il rapporto fra il pensiero e noi stessi, la domanda sulla verità che ci è preclusa. E su questo piano si collocano l'irresistibile spinta alla ricerca del godimento (Lust) e l'impossibilità di sapere, inaugurata dalla rimozione originaria. Su questo terreno di precarietà e di mancanza stupisce che l'interesse attuale per la psicoanalisi venga soprattutto da giovani filosofi, e non da giovani psicologi e psichiatri. In principio è la pulsione, quella che Freud definiva «il nostro mito», nell'idea che scienza e mito non siano contrapposti. A cavaliere della divisione corpo/mente si pone la sintesi metapsicologica freudiana, con l'ibrido statuto delle pulsioni protese fra le due diverse polarità, e la loro iscrizione psichica per rappresentanti di rappresentazioni. La pulsione crea la destabilizzazione e la tensione che tracciano le linee di un «divenire dell'essere», e segna una nuova frontiera fra senso e non-senso. La psicoanalisi, dapprima centrata, in Lacan, sull'azione dell'Altro, cioè sull'azione incessante del linguaggio che marchia il vivente, si rivolge poi anche all'Uno, al non-nato, al c'è dell'Uno - alle vicissitudini del godimento. A fronte della capacità della psicoanalisi di misurarsi con la pulsione, con l'inconscio, con la mancanza di senso, può la filosofia provare di non ridursi a pura elucubrazione, di poter rinunciare anch'essa al senso, toccare il reale?