Ero una ragazzina alle superiori quando impazzavano i Take That con Back for Good, cantato in un video sotto la pioggia, con i cappotti fradici. E pensavo che quell'amore struggente di cui parlavano fosse l'amore vero, quello benedetto. Credevo che bisognasse patire, come quelle stordite delle principesse chiuse nelle torri e attorcigliate nei loro capelli o che avevano mangiato la mela avvelenata o usato l'arcolaio sbagliato. Dal tormento alla gioia, perché Gary Barlow e soci suggerivano che il sentimento era quantomeno complesso, con quell'elemento turbativo che descrive Crepet. E me lo ripetevano anche Max e Mauro, con l'amore che si srotolava nella vita di provincia e la solitudine di quella Pausini rimasta sul binario, mentre Marco se ne era andato per non tornare più. Poi sono cresciuta. E ho capito che l'amore è anche qualcosa di buono e bello, semplicemente: un sussurro all'orecchio, la sensazione di avere accanto la persona con cui si conquisterà il mondo, uno sguardo d'intesa dall'altra parte della stanza, durante una festa piena di estranei. Un amore che è tale perché mi completa. Se no, non è amore. Se no, rischia di farmi rimanere secca.