Mi piace pensare che insegnare sia una professione «ecologica», che non dissipa energia, ma tenta di costruire ordine. Non concorre a degradare l'ambiente, inteso in senso lato, ma se ne prende cura. Non compromette il futuro, ma contribuisce a progettarlo. Non spreca risorse, ma si dedica allo sviluppo della più importante: quella umana. Ha avuto più riforme della Chiesa in tutta la sua storia, eppure si attende ancora quella "giusta": la prossima ventura, probabilmente. È troppo vecchia, o troppo prona alle mode più recenti e scriteriate. È inutilmente nozionistica, o incapace di lasciare un bagaglio di conoscenze stabili e condivise. Potrebbe essere "virtualizzata" senza rimpianti, ma resta uno dei baluardi dell'aggregazione umana e sociale per i giovani. Lascia brutti ricordi, ma talvolta insegna a ricordare... E si potrebbe andare avanti a lungo per opposizioni, contrasti, smentite (e soprattutto per luoghi comuni) nel tentativo di descrivere la scuola secondaria italiana. Un'esperienza che ha accomunato quasi tutti in veste di studenti e che "a volte ritorna" quando, diventati genitori, è il momento di mandarci i figli. Eppure, l'entità resta nebulosa, inafferrabile, semi-mitologica, come nell'antico apologo indiano sui sei ciechi che tentarono di descrivere un elefante sulla base della piccola parte che avevano potuto toccarne con mano. Professore di lungo corso al liceo «D'Azeglio» di Torino, Marco Vacchetti ci vede invece benissimo, e non è propenso a mitizzazioni o semplificazioni. L'elefante che ci disegna in queste pagine densissime, scorrevoli, amabilmente ironiche è un animale completo. Anzianotto e un po' acciaccato, forse, ma ancora pieno di risorse, specie per il suo inveterato talento a motivare o scoprire quelle altrui. Fuor di metafora: è l'insegnante che fa la scuola e ciò che di essa portiamo con noi nella vita. Che - ci si creda o meno - può essere davvero moltissimo.