Una genesi lunga due decenni, una lavorazione colossale, un'opera monumentale: l'ultimo film di Sergio Leone è il suo capolavoro, un compendio della sua arte e l'apice del suo lavoro di rielaborazione del cinema classico statunitense. Un noir violento e malinconico, un gangster-movie che omaggia il genere e i suoi stilemi, mettendo in scena una storia di amicizia e tradimento nella New York degli anni '20 e '30. Un'opera sterminata sul tempo perduto, sulla nostalgia e sulla negazione del Sogno americano. Ma anche un teorema sul lavorio dell'immaginario cinematografico e sulla narrazione che l'America ha fatto di sé attraverso la settima arte: una "vendetta" verso il cinema a stelle e strisce, che Leone attua (in qualità di «primo regista postmoderno», come lo definì Jean Baudrillard) demistificando l'inganno dei film con cui è cresciuto, scarnificandone l'incanto per dargli nuovo senso. "C'era una volta in America" è anche la storia di uno sguardo sul cinema, di un sogno infranto, di un mito smantellato per essere rifondato.