Questa è la storia di Luca e di sua moglie Viviana, entrata in stato vegetativo quando Mattia, il loro figlio, aveva poco più di sei mesi, e morta dopo quattro anni. È la lettera di un padre a suo figlio, la memoria di un percorso di elaborazione, le parole di dolore e speranza che un uomo ferito ha trovato dentro di sé. «Era questo la vita prima, una consequenzialità. Immaginavo cose da fare, facevo delle scelte, il corpo era uno strumento scontato, e amare Viviana era come bere l'acqua. Forse si può vivere solo così, spavaldamente, pensarsi eterni, non pensarsi. Non posso dire che sono migliore ora, sarebbe come una stupida consolazione. Non posso nemmeno dire che sono peggiore, anche se sono più egoista, più severo. Sono soltanto un altro, una trasformazione». La verità aiuta. Più che mai in questa storia, perché dire la verità è stato, per Luca, lo strumento necessario per essere e sentirsi famiglia, con il proprio figlio e una moglie in stato di «veglia non responsiva», come preferisce dire Paola Turroni, per sottolineare la realtà di quegli esseri umani che, pur in condizioni di estrema fragilità, possono aprire e muovere gli occhi, mantenere l'alternanza del ciclo sonno-veglia e mostrare, a chi gli è accanto e non smette di amarli, comportamenti ascrivibili a un parziale stato di coscienza.