Franco Carraro ha solo ventotto anni quando eredita agiatezza, responsabilità e passione per il Milan. Il padre ha corso troppo e il suo cuore si è fermato all'improvviso. Come in una staffetta, la corsa continua e il figlio segue la strada tracciata per lui. Consapevole dei propri privilegi, non si sottrae ad alcuna sfida. «Sono stato atleta, sindaco, ministro, dirigente, ho governato il calcio, il Coni, lo sport. Ho proposto leggi, mi sono occupato di banche, di imprese, di bilanci, ho scelto gli ultimi due allenatori vincenti della nazionale azzurra: Enzo Bearzot e Marcello Lippi. Fortuna, non preveggenza.» Oggi che può riconoscere di aver vissuto, speso e consumato il suo tempo, Franco Carraro si concede il piacere di ricordare. E lo fa senza scontarsi nulla: non esita a definirsi un borghese molto noioso, padovano e polentone, quindi un po' ottuso, amante della puntualità, sgradevole quando vuole, nemico delle ore piccole. Asperità del carattere. Per contro, la volontà e la determinazione lo guidano da subito. Capisce presto che lo sport, anche se bistrattato, fa parte della società, convoglia umori. Non è oppio per i popoli, vizio degradante da far fumare agli ignoranti. È molto di più. Ma va organizzato, in certi momenti anche rivisto radicalmente. Che sia il Coni, o la città di Roma guidata come sindaco, Carraro è convinto che dall'interno sia sempre possibile riformare. E lui si spende per farlo, senza mai indossare i panni di Robin Hood, anzi, restando fedele al suo immancabile abito blu. È un'autobiografia schietta quella che Franco Carraro ha scritto a quattro mani con Emanuela Audisio, giornalista di «Repubblica», dove non teme la precisione puntuale per ricostruire episodi mitici del nostro sport accanto a oscuri retroscena di vicende che ne hanno determinato la storia.