Indagando esclusivamente prigionie volontarie e consenzienti, l'autore osserva che l'architettura da sempre è solo una questione d'enclave, e che il progetto da sempre si misura con la totalità. A fondamento del reale e dell'abitare si pone la tendenza dello spazio a farsi isola e legge. Attraverso la costruzione di un atlante di eterogenee "comunità" (di anziani, di golfisti, di proprietari di aerei ecc.), emerge una geografia in cui si addensano i princìpi dell'enclave e del progetto totale. Come le isole sono modelli del mondo confinati in una cornice spazialmente e normativamente delimitante, così l'enclave non solo presuppone il progetto totale, ma è lo spazio paradigmatico dell'architettura stessa. Giunti a riva, siamo in balìa dello spazio e delle leggi dell'isola, siamo in balìa dell'architettura totale, che non può che rinsaldare il rapporto originario della legge con la vita. Viviamo dunque all'interno di un'architettura che è la nostra più felice condanna, che è il miracolo che possiamo e dobbiamo abitare. Lo spazio del progetto totale allora è il "lì" in cui si apre la possibilità dell'esistenza, o di una nuova esistenza: è la légion étrangère che offre ai prigionieri volontari nuove vite - non mi interessa chi eri, ma chi vuoi diventare -, nuovi muri a cui abbandonarsi. Ecco la conquista della piena coincidenza tra progettazione ed esistenza: l'architettura dell'enclave edifica la nostra biografia. E questo, dopo tutto, è il progetto totale.