La vita di Strindberg fu una successione di cataclismi: il più brutale, il più irriducibilmente strindberghiano fu quello del 1895, quando, a Parigi, la 'mano dell'invisibile' lo precipitò in un'esperienza dissestante, introducendolo a terribili cieli e inferni, retti da quelle 'potenze sconosciute' che Strindberg riuscì poi, a sua volta, a introdurre in un romanzo-diario. Scritto di getto, come una stenografia visionaria, Inferno risponde tuttavia a un piano cifrato che difficilmente riesce a cogliere chi legga, anziché l'intera trilogia, solo la prima parte, l'unica che si usa pubblicare. Che cos'è l'Inferno di Strindberg? È, in primo luogo, quello che Swedenborg aveva descritto in tante sue opere e che ora Strindberg riconosce in ogni particolare per le vie del Quartier Latin, come una lugubre messa in scena finalmente svelata. Ma non è solo questo: attore principale in una portentosa macchinazione, Strindberg ci appare qui al tempo stesso come l'alchimista delirante che in squallide stanze d'albergo trasforma il piombo in oro; come l'uomo dello 'scetticismo illuminato', che ha superato ogni illusione; come il primo scrittore moderno che fa confluire fisiologia, psicologia e parapsicologia; come l'aruspice per cui ogni coincidenza è una 'corrispondenza'.