Allo spontaneismo disordinato che ha guidato il boom degli anni Ottanta, caratterizzato da rapporti a tratti incestuosi con la finanza e la politica, si è sostituito un sistema strutturato di medie imprese, innovative, globalizzate, patrimonialmente solide, digitalizzate, (tendenzialmente) green. E soprattutto, nella maggioranza dei casi, a salda proprietà familiare. Di fronte alla crisi provocata dalla pandemia hanno dimostrato di saper reagire, adattandosi al nuovo scenario, salvaguardando l'occupazione e mantenendo le fabbriche aperte. Non era scontato e, invece, è stata la rivincita del capitalismo familiare. La famiglia, anello forte della società, è anche protagonista principale del sistema produttivo. Ma chi sono i neocapitalisti familiari? Si chiamano Vacchi, Bombassei, Fumagalli, Bauli, Rana, Marcegaglia. Parlano poco e solo delle proprie aziende, disdegnano la politica, non amano la finanza, rischiano la quotazione in Borsa. Vanno raramente in televisione. Si sono aperti ai manager esterni. Competono con qualità nei mercati globali e restano ancorati al territorio. Hanno studiato, sono europeisti e antipopulisti. Non sono i nuovi poteri forti. Hanno cambiato le proprie aziende in multinazionali tascabili, migliorandole e rafforzandole. Non è il vecchio capitalismo familiare che ritorna: è un'altra storia che merita di essere raccontata.