«Non ha dato un titolo al suo libro, ma credo che se l'avesse fatto, Loise De Rosa, avrebbe intitolato il testo alla maniera napoletana di «mo, ve conto». Era il modo antico, dei nostri avi cittadini del Regno di Napoli, di richiamare l'attenzione dei presenti, perché si stava per dire qualcosa di interessante, di importante. In questi ultimi anni è stata riservata maggiore attenzione alle "cronache" degli scrittori napoletani del XV e XVI secolo. Pochi anni fa De Caprio sottolineava "il nesso fra contesti, tradizioni culturali e scelte linguistiche delle cronache in volgare". Grazie a questi contributi, possono essere individuati "alcuni temi storiografici centrali per quanti, tra Cinque- e Seicento, affidano alla scrittura storica il compito d'illustrare le ragioni della preminenza sociale e politica dei ceti provinciali: il mito delle origini greco-romane e l'attenzione al Sacro, che si declina come interesse per la fondazione eroica delle città, per il culto dei santi protettori, per le istituzioni religiose". C'è qualcosa di più in questo desiderio di raccontare le vicende a cui si è assistito o di cui rimane ricordo nella tradizione culturale. Nel XV e XVI secolo in tutti i centri abitati del Regno si concordano tra gli abitanti e il feudatario dei regolamenti della vita cittadina, regolarmente sottoscritti davanti a notaio. Sono gli Statuti o i Capitoli Municipali, con cui vengono concordati i criteri di convivenza tra le famiglie, il rispetto dei loro beni materiali e la tutela dell'ambiente. Se si concorda qualcosa, vuol dire che ai contraenti si riconosce la "persona giuridica", cioè titolarità di diritti e obblighi. Nel suo racconto Loise De Rosa attinge da un patrimonio di eventi che la tradizione popolare aveva elaborato. Prendiamo la storia dell'amore tra Alfonso d'Aragona e la bella Lucrezia d'Alagno. Dato che la storia non è menzionata nei documenti storici fino a quando essa non sarà comprovata, gli studiosi moderni continuano a discutere la natura storica di Rahel e il suo rapporto con il re. Qualche considerazione a proposito della "traduzione" in italiano del testo di De Rosa che è in "espressione" napoletana. Ho seguito quanto dice V. Nabokov sulle traduzione di un testo in altra lingua diversa da quella originaria. Ho lasciato, per quanto ho potuto, l'andamento stilistico dell'originale. "Nabokov perfezionò la sua teoria sulla traduzione letterale: precisione lessicale senza alcun compromesso a vantaggio della fluidità e dell'approssimazione metrica o stilistica. Nabokov espose le sue idee nella prefazione a Invito a una decapitazione." La fedeltà dell'autore ha la precedenza, per quanto bizzarro sia il risultato Vive le pétant e abbasso i sempliciotti, i quali pensano che tutto vada bene se viene reso lo spirito". La traduzione doveva aiutare a leggere l'originale, non a sostituirlo. Benché, a differenza del romanzo realistico, i racconti dell'oralità popolare appartengano all'ambito dell'improvvisazione, i più interessanti autori contemporanei creano l'impressione dell'improvvisazione ogni volta che, inevitabilmente, fanno uso del linguaggio colloquiale". Il testo in volgare è stato lasciato così come nell'originale, cioè senza segni di interpunzione ma solo con la divisione in paragrafi. Per chi ha letto l'Ulisse di Joice risulterà più agevole la lettura. È un poco come se De Rosa avesse anticipato il monologo interiore. Il lettore, però, partecipa all'opera dello scrittore, perché ne interpreta l'andamento della lettura e i momenti di pausa.» (V. I.)