«I fichidindia che danno il titolo al libro evocano un contrasto di dolce e spinoso, poesia e desolazione. Casagrande, esule volontario e temporaneo in Eritrea, redige un diario in versi che dialoga con l'eredità di altri europei sradicati in Africa, da Rimbaud a Sereni. La sua voce è ora pienamente matura, in grado di macinare farina fine con il grano ruvido di qualunque realtà. Tutte le strade, tutte le occasioni la conducono alla poesia, da quelle minute e quotidiane fino alle sublimi come la contemplazione della volta celeste o della storia. Asmara si eleva a esempio di una condizione comune. Tutti vorrebbero andarsene, ma il loro tragitto li porta soltanto a muoversi intorno senza meta o, dispersi, a ritornarvi per fatale attrazione. La capitale eritrea confina con l'Orano di Camus, un orlo di gente cucito attorno al deserto in cui tutti sono stranieri ed estranei. L'inanità di guerre e conquiste, e dello stesso costruire città, si fa limpida e quasi cosmica lungo l'arco dei millenni. Ma nel presente si affannano creature a barcamenarsi tra case di lamiera, espedienti e corruzione. L'incontro è sfumato, se da questo ci attendevamo un rassicurante dialogo interculturale. Rimane però la poesia come sogno di universalità, nebbia che aleggia sopra i continenti senza più una terra al di sotto. È in questo sguardo dall'alto o dal profondo che l'Eritrea può diventare una terra fraterna, simbolo di un affannarsi di folli nel quale si condensa, a nord come a sud, la vicenda umana» (dalla postfazione di Isacco Turina)