Più di tutti gli scrittori del Novecento, André Malraux ha incarnato la sintesi di Arte e Storia, ha ideato una "poetica del potere". Bello, scaltro, audace, autore di romanzi "di culto" (La condizione umana su tutti), Malraux sognava di diventare Lawrence d'Arabia: da ragazzo rubava bassorilievi dai templi cambogiani, aureolati dalla foresta; da adulto si impegnò nella guerra civile spagnola, guidando una flotta aerea; nella Seconda guerra mondiale lottò tra i resistenti. Per un decennio, al fianco di de Gaulle, fu il ministro plenipotenziario della cultura francese, fautore di una politica "imperiale", grazie anche all'amicizia con i grandi artisti dell'epoca, da Matisse a Picasso. I suoi discorsi, nei ranghi di una retorica all'eccesso, all'assalto, ricostruiscono il profilo di un uomo enigmatico, di una vita inimitabile. Quali "valori" hanno ancora da difendere gli occidentali?, si domanda Malraux nel 1952. Quelli dell'arte, "espressione della libertà più profonda", scrive lo scrittore. Un'arte, però, né supina né salottiera, che "non è sottomissione, ma conquista". Restò sempre nell'ebbrezza, nell'orda della battaglia.